IL CONFLITTO DI FAMIGLIA E LE FIGURE PROFESSIONALI DI AIUTO: UN PRIMO APPROCCIO

L’intenzione di chi scrive è quella di dare un sintetico inquadramento generale del conflitto di famiglia, al fine di tratteggiare le caratteristiche delle figure professionali, che la coppia può incontrare nell’affrontare il percorso di crisi.

Nel momento in cui uno od entrambi i partners avvertono un disagio (non transitorio, ma ripetuto e persistente) rispetto alla relazione, il primo passo necessario è la presa di coscienza di una crisi in atto. Il non sentirsi più comodo nella relazione, può dipendere da svariate ragioni di diversa natura, che, banalmente (senza la pretesa di essere esaustivi), potrebbero essere suddivise in due macro aree.

  • 1 Problematiche soggettive che riguardano un solo membro della coppia, ma che su di essa si riverberano:

– vissuti traumatici non risolti
– perdita del lavoro e rovesci finanziari
– trasferimento per ragioni lavorative
– malattie.

  • 2 Problematiche di coppia:

– incapacità di estendere a triade il rapporto diadico quando arrivano i figli
– divergenza dei progetti di coppia che contrastano con quelli individuali
– venir meno della progettualità comune
– mancanza di comunicazione, che viene quindi cercata al di fuori della coppia
– ingerenza ed invischiamento delle rispettive famiglie di origine
– aspettative di uno dei componenti la coppia disattese e deluse.

Se le ragioni prospettate possono essere la causa di una crisi di coppia, diventa fondamentale riconoscerne i sintomi al fine di intervenire.

  • Quali potrebbero essere i segnali di crisi ? A mero titolo esemplificativo:

– senso di estraneità
– inquietudine
– difficoltà di concentrazione
– malinconia
– insofferenza
– perdita di sonno, ovvero necessità di dormire più di quello che normalmente si necessita
– sbalzi di umore
– perdita di interesse.

Se vi è difficoltà a coniugare questa sintomatologia ad una crisi di coppia, varie possono essere le figure professionali di aiuto cui rivolgersi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la relazione di aiuto è: una relazione fra persone in cui uno dei protagonisti (operatore) cerca di favorire nell’altro (il soggetto in difficoltà) una maggiore valorizzazione delle proprie capacità presenti e potenziali, che nel rispetto delle caratteristiche individuali, porti a graduali miglioramenti della qualità della vita.

Un primo aiuto per orientarsi, lo si potrebbe ricevere dalle figure professionali di seguito descritte.

Medico di famiglia. Il medico di famiglia o medico di assistenza primaria (MAP), in riferimento al ruolo all’interno dell’SSN è il responsabile della cura globale della persona, rappresenta l’accesso del cittadino al Sistema Sanitario Nazionale ed ha il compito di coordinare sotto la sua responsabilità l’intera vita sanitaria dei suoi pazienti. Questi nell’esercizio della sua funzione, può aiutare il paziente a comprendere se il malessere/disagio sia riferibile ad una patologia di tipo fisico, ovvero ad un disagio psicologico e relazionale. Il paziente garantito dal rispetto della privacy e del segreto professionale, trova nell’ambulatorio del medico un primo spazio di accoglienza e di orientamento.

Counselor. Questa figura professionale offre un intervento di supporto nei confronti del cliente con problematiche di varia natura (e quindi anche problemi relazionali) ed è diretto al superamento delle difficoltà di adattamento rispetto a specifiche situazioni di tensione, cercando di stimolare le sue capacità di reazione e di adattamento, partendo dal presupposto che chi richiede aiuto ha le competenze per superare il suo problema. Metaforicamente parlando, il counselor ti offre gli strumenti perché Tu possa pulire lo specchio e vedere con maggiore chiarezza. Si tratta pertanto di un percorso breve (10, massimo 12 incontri di sessanta minuti circa) che lavora su un obiettivo specifico condiviso dal cliente con il counselor. La modalità di intervento è sul qui ed ora.

Terapeuta. Lo psicoterapeuta è un professionista sanitario – medico o psicologo – autorizzato all’esercizio della psicoterapia dall’ordine professionale di appartenenza. Il suo intervento mutua le tecniche dai numerosi modelli applicativi della psicologia, ed è rivolto alla risoluzione dei sintomi e delle loro cause, conseguenti a sofferenza.

Attraverso il percorso con una di queste figure professionali la persona può prendere coscienza della crisi con il proprio partner, così trovandosi ad un bivio:

– rilanciare il patto di coppia, cercando quindi ristabilire un nuovo equilibrio, anche ricorrendo ad una terapia di coppia e/o familiare;
– prendere atto della irreversibilità della crisi, e quindi rivolgersi ad un legale.

Ma a quale Avvocato è opportuno rivolgersi e quali competenze professionali è necessario che questo professionista abbia maturato per essere di aiuto in questioni tanto delicate quanto lo sono i conflitti di famiglia? Cerchiamo di dare una risposta, partendo dalle seguenti considerazioni:

gli interventi legislativi che hanno iniziato a favorire e rendere obbligatorie rispetto alla giurisdizione ordinaria forme di giustizia alternative volte alla risoluzione dei conflitti, le così dette ADR hanno imposto ed impongono all’avvocato una riflessione sulla propria formazione, e sulla necessità di “rimodellarla” arricchendola di competenze nuove, al fine di poter offrire al cliente la forma di giustizia, fra quelle previste dal sistema, che meglio si adatti al caso sottoposto. Una rivisitazione del Sé professionale volto quindi ed in primo luogo, ad avere le necessarie competenze per consigliare il proprio assistito su quale sia, degli approcci possibili, il più appropriato per risolvere il problema che il cliente ha portato nel suo studio.

Ci è piaciuta molto l’idea di alcuni autori di leggere l’acronimo ADR anziché come Alternative Dispute Resolution, diversamente Appropriate Dispute Resolution, perché questa diversa lettura evidenzia la necessità, in società complesse come la nostra, di non affidare ad un’unica modalità la soluzione delle controversie. Ci sono infatti alcune categorie di conflitti dove la relazione fra le parti è e deve rimanere centrale, e per far sì che ciò accada il focus deve avere ad oggetto il sistema di comunicazione più adatto che le parti devono instaurare per giungere alla soluzione del loro conflitto. A tale proposito non è detto che il linguaggio giusto sia sempre quello giudiziale. I clienti mediamente quando arrivano al nostro studio, in special modo se portano dall’avvocato un conflitto di famiglia “vogliono vedere scorrere il sangue”, ma devono imparare, e deve essere il loro legale ad insegnarglielo, che l’abilità in tribunale non è tutto, esiste la capacità (che potremmo anche definire intelligenza professionale) di scegliere il metodo più appropriato per cercare di risolvere il loro problema.

Questo diverso modo di approcciare i casi portati dai clienti allo studio, presuppone a monte che il legale abbia integrato le competenze frutto della formazione tradizionale, con competenze diverse, per esempio la capacità di interpretare il conflitto anche con la modalità del pensiero circolare o sistemico, l’utilizzo del quale evidenzia che la controversia che impegna le parti non sempre si deve risolvere in una sorta di duello tra entità separate, componibile solo con la vittoria o la fuga di una delle parti dal conflitto, bensì come un sistema di comunicazione interrotta. Spesso infatti il conflitto trova la sua causa in un blocco della comunicazione. Si devono aprire canali nuovi di comunicazione o ri-aprire i vecchi; vi sono possibilità infinite di apertura alle quali possiamo ricorrere con atteggiamento empatico, molto diverso dalla logica giuridica. Ma perché questo possa accadere, è necessario che il Sé professionale dell’avvocato acquisisca un respiro diverso, più ampio, ed altrettanto il suo linguaggio.

Assieme a quella del diritto, l’avvocato dovrà imparare a parlare una nuova lingua, che ci piace definire quella degli interessi e dei bisogni. La cultura classica di appartenenza, quella sulla quale il giurista si forma, affonda le radici in un terreno ove il conflitto è vissuto come evento patologico e la sua gestione avviene nel perimetro dell’ordine imposto. La soluzione della lite è rimessa ad un potere esterno riconosciuto, il giudice, che, con il suo giudizio, la sentenza, stabilirà chi ha torto e chi ha ragione, in una logica escludente che è quella dell’aut – aut, un vincitore e un vinto. L’approccio mentale è quello così detto a somma zero, data una posta in gioco, quella sarà distribuita secondo giustizia. Lo sguardo, in tale logica è necessariamente rivolto al passato, per attribuire le responsabilità, e quindi difendere il proprio assistito applicando il diritto al caso concreto. La decisione secondo diritto si occupa, pertanto di chi abbia torto o ragione, ma non della relazione delle parti in conflitto, che, in tale ottica, è destinata a rompersi definitivamente, con ogni comprensibile conseguenza. Se pensiamo alle relazioni familiari ed ai relativi conflitti, ne consegue che la sede naturale del loro componimento dovrebbe essere fuori dalla logica processuale. Il giudizio, deve rappresentare la soluzione ultima, è previsto ed è una garanzia, ma solo ove tutti i tentativi di composizioni amichevole non abbiano sortito effetto.

Ecco allora che l’avvocato dovrà affrontare la sfida del cambio di paradigma, dovrà certamente considerare la posizione di diritto del suo cliente, ma dovrà arricchire la prospettiva considerando i suoi bisogni, i suoi interessi l’attuazione dei quali ha importanza almeno quanto l’applicazione del diritto. Va pertanto da sé che, in tale prospettiva il Sé professionale dell’avvocato debba integrarsi con diverse ed ulteriori competenze. In questa mutata ottica anche agli occhi del legale il conflitto assumerà una valenza nuova, non più solo un evento patologico, ma qualcosa di fisiologico, di intrinseco alla relazione stessa. Non esiste relazione senza conflitto, e poiché la relazione va salvata, l’avvocato dovrà prendersi cura della stessa unitamente all’assistenza del proprio cliente. Le considerazioni fino adesso svolte ci aiutano a delineare le competenze che il legale esperto di diritto di famiglia dovrà integrare con la preparazione giuridica.

L’avvocato saprà ascoltare ed essere empatico. Tanto maggiori saranno le informazioni che verranno messe sul tavolo, tanto più semplice sarà generare soluzioni conciliative. Saper ascoltare non significa banalmente “stare a sentire”, quanto piuttosto comprendere interessi e bisogni che entrano in gioco accanto alle posizioni di diritto. Se comprendiamo il bisogno dell’altro, avremo l’opportunità di proporre e generare soluzioni che soddisfino il nostro assistito, ma che saranno suscettibili di essere accolte dalla controparte perché si tiene conto anche dei suoi bisogni. In ciò consiste l’empatia, ovvero nella capacità di capire gli interessi e le necessità della controparte, aiutando il proprio assistito a fare altrettanto: capacità di mettersi nei panni dell’altro.

Il legale sarà anche assertivo, ovvero capace di esplicitare gli interessi del suo assistito in maniera chiara ed organizzata. In questo modificato approccio, il conflitto diviene un terreno di confronto, di riorganizzazione della relazione, non di frattura della stessa. La proiezione sarà quella dello sguardo al futuro, il passato assume la funzione dello specchietto retrovisore mentre si è alla guida della macchina, guardare dietro per procedere avanti.

Per accompagnare la parte verso una soluzione consensuale del conflitto il professionista dovrà valorizzare il ruolo del proprio assistito, restituendo al medesimo quella competenza che il conflitto ha in qualche modo messo in ombra, aiutarlo nel percorso di trasformazione del conflitto, che deve diventare il terreno sul quale costruire l’accordo, condividendo col cliente strategie creative, creando con lui una molteplicità di opzioni sulle quali lavorare con l’altro membro della coppia ed il suo legale allo scopo di negoziare un accordo di reciproca soddisfazione. Il difensore dovrà avere la capacità di fare concessioni, concedere non significa rinunciare, significa piuttosto sviluppare alternative, riconoscere possibili soluzioni. Se alla impostazione di tipo tradizionale, sapremo arricchire il nostro “Sé” professionale di questa diversa modalità, l’avvocato saprà spiegare al suo assistito che vincere non sempre risolve il problema, e che un cliente che è riuscito a ritrovare un canale di comunicazione con l’altro membro della coppia, che è stato capace di trovare un componimento della vicenda che lo soddisfi perché tiene conto delle sue personali necessità e di quelle del contesto familiare, è risultato preferibile ad una causa vinta. Senza abdicare ai diritti talvolta la realizzazione di un interesse e la soddisfazione di un bisogno può essere più importante. Ecco che la logica della cooperazione prenderà il posto di quella avversariale.

Una modalità attuativa dell’ottica di cooperazione è anche quella di sviluppare una rete di sostegno per la coppia, ricorrendo, quando necessario, anche ad altra figura professionale di aiuto: il mediatore familiare.

Il Mediatore Familiare è il professionista (terzo ed imparziale) che, nella garanzia del segreto professionale ed in autonomia dall’ambito giudiziario, aiuta i membri della coppia a trovare accordi condivisi che soddisfino i bisogni ed esigenze dei componenti la famiglia. Aiuta la coppia a riorganizzare le relazioni familiari accompagnando il cambiamento.

Il primo step del procedimento di mediazione familiare è la verifica da parte del mediatore circa la mediabilità della coppia. A questo proposito e ed a titolo puramente semplificativo, possiamo analizzare i conflitti di famiglia secondo tre diverse modalità, che dipendono dal livello di consapevolezza e dal disagio di ciascun componente la coppia:

1) coppie con sufficiente consapevolezza della crisi relazionale: sono quelle coppie che hanno un buon grado di elaborazione dell’evento separativo, richiedono la formalizzazione di accordi, vi sono alcuni nodi da sciogliere che, con l’aiuto del mediatore, riescono a comporre;

2) coppie con trascorsi altamente disagianti (tossicodipendenza/violenza intrafamiliare): l’origine dei conflitti e disagi di queste coppie sono caratterizzati da patologie, che rendono indispensabile, l’invio da parte del mediatore a Centri e Strutture dedicate proprio per la salvaguardia di questa tipologia di soggetti, che il mediatore familiare definisce pertanto, in questa prima fase, non mediabili;

3) coppie che portano allo studio un conflitto, che pur non trovando la sua fonte in quelle problematiche di cui al punto che precede, si caratterizzano comunque per alta intensità. Giungono dal legale arrabbiate,  impaurite, ferite, concentrate su una visione solo personale del problema, da non essere neppure in grado di ricevere l’assistenza che sono andati a chiedere perché nell’immediato hanno bisogno di altro.

Le coppie che vivono quest’ultima tipologia di conflitto, usano sedersi al tavolo dell’avvocato spalancando ciò che hanno portato via dalle loro relazioni fallite: bagagli pesanti. In questa fase, il cliente si aspetta la ragione, la vendetta, vuole distruggere l’altro «lo/la voglio rovinare – io a uno / una così i figli non voglio proprio farglieli vedere – non è stato/a in grado di gestire un matrimonio, figuriamoci una separazione». Sono preoccupati del futuro. Si tratta di soggetti, che, come già precisato, portano una visione personale ed unilaterale del conflitto, nella quale il problema è l’altro. Quando il conflitto riveste i toni sopra descritti, il setting della mediazione familiare può essere di utilità in quanto:

offre uno spazio neutro, accogliente, riservato alla coppia assistita dagli avvocati nella fase iniziale e finale (o quando risulta opportuno), nel vincolo della riservatezza, autonomo e distinto dal contesto giudiziario.

Il mediatore può agire come catalizzatore della comunicazione stabilendone le regole quali ad esempio: il turno di parola, il rispetto per l’altro, parlare in prima persona di sé e non dell’altro. Inizialmente ciascuna parte si rivolgerà direttamente al mediatore familiare, ignorando l’altra, ma, a mano a mano che si ri-apre il canale comunicativo, le parti iniziano a rivolgersi anche fra loro parlandosi direttamente.

Il setting della mediazione, inoltre, aiuta le parti ad esprimere le emozioni in un contesto protetto, e quindi ad esprimere ma anche a contenere la rabbia.

La mediazione può altresì risultare funzionale a bilanciare la coppia rispetto all’evento separativo, per andare dello stesso passo. Infatti chi ha scelto o chi subisce la scelta procede a velocità diversa nell’elaborazione dell’evento.

Il percorso, inoltre, aiuta la coppia a trasformare la visione del conflitto da unilaterale a congiunta, passando da: il problema sei tu, a il problema è nostro.

Infine la mediazione familiare contribuisce a spostare l’attenzione della coppia dal passato, ovvero dalla propria visione unilaterale della storia e dell’evento separativo, al presente, per indirizzarsi verso la riorganizzazione della relazione familiare, e quindi al futuro, attraverso la negoziazione di nuovi accordi. Supporta i genitori a ricostruire e mantenere la fiducia nella coppia genitoriale, cercando di evitare la proiezione della vicenda della coppia nel rapporto con i figli. Ogni genitore ha un rapporto personale con i figli, ma occorre ri-organizzare il rapporto fra i due genitori in modo funzionale ai bisogni dei figli.

Il mediatore lavora per creare un contesto nel quale gli avvocati e le parti possano negoziare accordi che abbiano tenuta, consentendo altresì la possibilità della verifica degli stessi, con sedute di follow-up, prima della loro definitiva stesura.

L’intervento del mediatore familiare, per sua precipua caratteristica, ha natura facilitativa e poggia sulla capacità della coppia di ritrovare la comunicazione interrotta nell’interesse dei figli, così da poter svolgere in modo adeguato la genitorialità. Talvolta l’intervento è insufficiente, laddove la coppia rispetto alla gestione dei figli rimanga altamente conflittuale, pur essendo stata capace di trovare accordi soddisfacenti sugli altri aspetti della separazione.

Quando ciò accade un valido aiuto può essere trovato in un professionista specializzato in coordinazione genitoriale che, con tecniche caratterizzate da maggiore direttività, aiuta i genitori ad attuare il piano genitoriale dai medesimi concordato, ovvero imposto dalla Autorità Giudiziaria.

La Coordinazione Genitoriale (meglio conosciuta con l’acronimo Co.Ge.) è un sistema di risoluzione alternativa delle controversie, non riservato, centrato sul minore. E’ rivolto a genitori la cui perdurante ed elevata conflittualità costituisca un rischio evolutivo per i figli. Essa prevede che un terzo imparziale, professionista adeguatamente formato, aiuti i genitori altamente conflittuali a mettere in pratica la bi-genitorialità attraverso l’implementazione e il mantenimento delle decisioni già assunte consensualmente, od imposte dalla Autorità Giudiziaria, nonché di quelle che saranno adottate all’interno del processo di Coordinazione Genitoriale sulla base del riconoscimento dei bisogni dei figli.

Firenze, 11 Dicembre 2020

A cura di Paola Levani e Maria Caterina Pecchioli